Intitolazione della casa circondariale di Palermo Pagliarelli alla memoria di Antonio Lorusso Ruvo di Puglia (BA), 22 agosto 1929 - Palermo 5 maggio 1971

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Antonio Lorusso
Antonio Lorusso

Alla presenza del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo si svolge oggi, 29 dicembre 2017, alle ore 11,00, la cerimonia di intitolazione della casa circondariale di Palermo Pagliarelli alla memoria di Antonio Lorusso, Appuntato del Corpo degli Agenti di Custodia, autista del Procuratore Capo di Palermo Pietro Scaglione, entrambi barbaramente uccisi il 5 maggio 1971 nel vile attentato mafioso teso nel percorso che li portava al Palazzo di Giustizia. Sono presenti il Provveditore regionale per la Sicilia Gianfranco De Gesu; la direttrice dell’istituto Francesca Vazzana; il Comandante di Reparto Commissario Capo Giuseppe Rizzo; i figli di Antonio Lorusso Felice e Salvatore; Antonio Scaglione, figlio del Procuratore Scaglione, primo Magistrato ucciso dalla mafia e insignito della Medaglia d’oro al merito della redenzione sociale per il suo impegno umanitario a favore delle carceri.

Antonio Lorusso si arruola nel Corpo degli Agenti di Custodia il 29 marzo 1957, dopo aver concluso l’esperienza di sottufficiale nel Reggimento Granatieri di Sardegna. Frequenta il corso di addestramento presso la Scuola degli Agenti di Custodia di Cairo Montenotte, quindi viene assegnato alle Carceri Giudiziarie “Ucciardone” di Palermo, per essere impiegato in qualità di autista presso gli Uffici Giudiziari del capoluogo. La professionalità con cui svolge il delicato incaricato viene lodata dal Procuratore Capo della Repubblica Palmeri e confermata, successivamente, dal nuovo Procuratore Pietro Scaglione. Con una nota indirizzata all’Ispettore Generale Reggente la direzione delle carceri Giudiziarie di Palermo, il Procuratore Scaglione esprimeva il seguente giudizio di classifica per l’anno 1964, confermato anche per il 1965: “(…) significo che l’agente Lorusso Antonio espleta le mansioni commessegli dando quotidianamente prova di spiccate capacità, di moltissima operosità e di irreprensibile condotta. Dotato di proprio intuito, disciplinato e riguardoso, si distingue per encomiabile attaccamento al dovere, e per lo zelo e la precisione con cui disimpegna i vari incarichi affidatigli. Per tali doti si è meritato la stima e la considerazione generale. Esprimo, pertanto, parere favorevole per l’attribuzione al Lorusso della massima qualifica per l’anno 1964”.

La mattina del 5 maggio del 1971 il Procuratore Scaglione, come ogni giorno, si reca al cimitero dei Cappuccini, per pregare sulla tomba della moglie Concetta. Fuori lo aspetta l'autovettura di sevizio guidata dall’Appuntato Antonio Lorusso, che lo avrebbe accompagnato presso il Palazzo di Giustizia.
Sono le 10.55 quando al centralino del pronto intervento della Questura di Palermo giunge una telefonata che segnala un’autovettura ferma in via Cipressi, con a bordo due uomini privi di vita. Gli agenti della Squadra mobile, guidati dai commissari Boris Giuliano e Bruno Contrada, si portano sul posto dove constatano che all’altezza del civico 242 di via dei Cipressi è ferma l’autovettura Fiat 1300, in servizio di Stato, con a bordo, riversi sul sedile anteriore e su quello posteriore, due uomini insanguinati, identificati con il Procuratore Capo di Palermo Pietro Scaglione e l’Appuntato Antonio Lorusso. Entrambi, benché crivellati da numerosi colpi di arma da fuoco, danno ancora deboli segnali di vita. Vengono prelevati dalla Fiat 1300 e trasportati con mezzi della polizia all’ospedale civico dove giungono senza vita, colpiti in regioni vitali da numerosi proiettili di arma da fuoco, calibro 9 e 38 special.
Antonio Lorusso era sposato con Maria Dora e padre di Felice e Salvatore di otto e due anni.
L’Appuntato Lorusso è stato riconosciuto dal Ministero dell'Interno “Vittima del Dovere” ai sensi della Legge 101/1968.
Testimonianza di Salvatore, figlio di Antonio Lorusso, gentilmente rilasciata alla redazione.
“Quando mio padre venne ucciso aveva 42 anni, mia madre che all'epoca non lavorava ne aveva appena 33, mio fratello 8 ed io solo poco più di 2. La mattina di quel 5 maggio mio padre, come faceva di solito, accompagnò mio fratello a scuola, quel giorno impegnato nella sua prima gita scolastica per poi recarsi in servizio. Mia madre era a casa e mentre mi dava da mangiare, apprese da sola della terribile notizia dalla radio ascoltando il Gazzettino; emise un terribile grido. Passati diversi anni ed io diventato grande, un condomino parlandomi di mio padre e di quanto accaduto mi disse "ricordando quel terribile giorno, sento ancora tremare il palazzo per quelle grida di tua madre", da quell'urlo è cambiata la vita della nostra famiglia. Ancorché diversa per modalità, scopi e disegni criminosi la storia di mio padre probabilmente è molto simile alle storie degli altri caduti e la storia della nostra famiglia lo è altrettanto. Mio padre era un fedele servitore dello Stato, un uomo semplice che ha sempre indossato una divisa e per fare il suo dovere ha pagato con la vita un debito mai contratto aprendo, purtroppo, la tragica lista degli uomini di scorta assassinati insieme a coloro che difendevano. A noi familiari, invece, è toccato convivere con sentimenti di angoscia, rabbia, sconforto ed anche tanto altro ed in più, almeno nel nostro caso, all'amarezza legata alla circostanza che nessun colpevole ha mai pagato per questo omicidio. Purtroppo le lunghe indagini condotte dall'Autorità Giudiziaria di Genova, soprattutto nell'ambito della cosca corleonese di Luciano Leggio detto Liggio, non hanno consentito la condanna dei mandanti ed esecutori del grave duplice omicidio. Nel gennaio del 1991 il Tribunale di Genova archiviò il caso, dichiarando sia di non doversi procedere nei confronti degli imputati, fra cui lo stesso Liggio, sia di non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori dei delitti. Dalla motivazione della sentenza è emerso che si è trattato di un omicidio di stampo mafioso. Non è facile raccontare e far comprendere come realmente si è affrontata la vita dopo quanto accaduto, le difficoltà riscontrate, la solitudine che si avvertiva nonostante tanta gente ti potesse stare attorno e, sebbene tutti questi anni ormai trascorsi, ancora oggi poco è cambiato e potrà cambiare perché una ferita del genere non potrà mai rimarginarsi. Mio padre aveva rinunciato alla sua carriera perché decise di non frequentare il corso di Vice Brigadiere per non allontanarsi dal Procuratore Scaglione dopo tanti anni trascorsi al suo fianco ed il destino ha voluto che lo seguisse anche nella morte. A motivo di orgoglio per l'Amministrazione Penitenziaria, desidero che si sappia che la città di Palermo, nel tempo, ha voluto rendere onore alla figura di mio padre collocando una lapide sul luogo dell'omicidio, intitolandogli una via cittadina, raffigurandolo in un "Mosaico" fotografico affisso nella facciata principale del Tribunale e piantando un albero a lui dedicato con una targa commemorativa all'interno del "Giardino della Memoria". L'Associazione "Libera nomi e numeri contro la mafia", invece, ha voluto a lui intitolare un Presidio nella città di Genova. Voglio concludere riportando il brano conclusivo molto toccante di un articolo pubblicato nella rivista L'Agente di Custodia del mese di Giugno 1971 intitolato: “Estremo saluto ad un caduto in servizio - agente Lorusso Antonio... PRESENTE! Addolorati e col cuore in mano siamo stati dai Tuoi familiari e accarezzando i Tuoi cari figliuoli non ci è corso il dubbio sul loro avvenire; abbi fede, perché le Autorità che ci amministrano avranno cura di loro e nulla tralasceranno in loro favore. Tutti dovranno avere una sistemazione sicura e dignitosa perché così si addice all'onore di essere moglie e figli di un Agente di Custodia barbaramente trucidato nell'adempimento del proprio dovere. Mentre dalle colonne del nostro Giornale esprimiamo i sensi del più sentito cordoglio verso i tuoi familiari colpiti da immane sciagura, tredicimila uomini componenti la famiglia cui appartenevi, su invito del Tuo modesto Maresciallo Comandante prorompono con grido accorato nel fatidico PRESENTE."

Pietro Scaglione (Palermo, 2 marzo 1906 - Palermo, 5 maggio 1971)
Procuratore della Repubblica di Palermo, assassinato dalla mafia.

Il dottor Pietro Scaglione viene assassinato a Palermo il 5 maggio 1971. Il magistrato e l'autista Antonio Lo Russo percorrono in auto via dei Cipressi quando vengono affiancati da una Fiat 850 dalla quale alcuni killer esplodono due raffiche di mitra. Scaglione e Lo Russo muoiono sul colpo. Il magistrato come ogni mattina, anche quel tragico 5 maggio del 1971, si era recato al cimitero dei Cappuccini per far visita alla tomba della moglie Concetta scom-parsa da qualche anno. Quelli erano gli ultimi giorni di vita siciliana per Scaglione, che era già stato destinato a ri-coprire le funzioni di Procuratore Generale a Lecce.
A oggi non sono noti i nomi dei sicari né è stato pienamente acclarato il movente del vile attentato. I collaboratori di giustizia hanno fornito elementi utili alle indagini, ma essi si sono rivelati privi di sufficienti riscontri.
Pietro Scaglione è il primo giudice siciliano ucciso dalla mafia. Nell'editoriale del Corriere della Sera pubblicato all'indomani dell'omicidio, Alberto Sensini scrive: "Il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepas-sato, un punto di non ritorno". La sorella del magistrato, Rosa, quando esce dall'obitorio urla: "Hanno ucciso il Procuratore. In questo momento ridono perché non li prenderanno mai".
Pietro Scaglione nasce a Palermo il 2 marzo del 1906; è figlio di un possidente agricolo. Si laurea giovanissimo ed entra in magistratura nel 1928. Dopo essere stato Vicepretore e Pretore, approda alla Procura di Palermo dove gli vengono affidati i processi per la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. Nel febbraio del 1954, Ga-spare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, e condannato all'ergastolo, chiede di parlare con un magistra-to. È di turno Scaglione. Pisciotta ricostruisce a lui i particolari e la dinamica di quella strage. Il magistrato assicu-ra che tornerà l'indomani con un cancelliere. Ma l'indomani Pisciotta muore dopo aver bevuto un caffè alla stricni-na. Scaglione si occupa anche dell'assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955, negli anni del latifondismo e delle lotte contadine. Da Procuratore capo indaga sulla strage di Ciaculli e con l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo contribuisce a reprimere efficacemente la mafia, come attesta anche la Relazione della Commissione parlamentare antimafia. Scaglione si batte per la introduzione di nuove norme antimafia di contra-sto della criminalità organizzata e per il soggiorno obbligato da infliggere ai mafiosi anche in mancanza di diffida.

Le ricostruzioni operate in quegli anni anche sui mezzi di informazione, sottolineano che, prima come Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di appello e poi come Procuratore capo, Scaglione, fu un implacabile accusa-tore di Luciano Liggio e di tutti gli affiliati alla cosca mafiosa di Corleone dirigendo personalmente nel 1966, per la prima volta, un'operazione di polizia, a livello internazionale, nei confronti degli stessi. Fu poi convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministra-zioni. È il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra il magistrato e i politici, il tempo in cui la "linea" Scaglione portò ad una serie di procedimenti nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici.

Vi furono tentativi di mafia diretti a offuscare la figura del Procuratore. Come ricordò Paolo Borsellino nel 1987, la mafia decise, a partire dall'omicidio di Scaglione, "una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che avevano intuito qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolate, che dietro di loro non c'era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione...". Come è stato scritto, a partire dall'omicidio del Procuratore Scaglione, la "costante di ogni delitto eccellente" della mafia consisterà nel fatto che "prima, oppure dopo il tritolo o il piombo, scatta sempre un'opera di delegittimazione" volta a indebolire la figura della personalità uccisa. L'uccisione del Procuratore Scaglione - come scrisse a sua volta Giovanni Falcone - ebbe sicuramente "lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque osta-colasse il suo cammino". Subito dopo l'uccisione di Pietro Scaglione, i magistrati della Sicilia, riuniti in assemblea, approvarono un documento che, anche sotto gli aspetti appena indicati, è di grande importanza. Vi si legge: "I Magistrati del Distretto di Palermo, con l'intervento dei magistrati degli altri Distretti della Sicilia, riuniti in as-semblea, profondamente costernati per l'infame assassinio che ha turbato gravemente la opinione nazionale;
dichiarano che la temeraria sfida non attenuerà, né rallenterà l'opera di prevenzione e di repressione della crimi-nalità e del fenomeno mafioso; anzi ribadiscono la decisa e ferma volontà di impegnare tutta la loro abnegazione ed energia in questo difficile compito;
riaffermano che l'indipendenza della Magistratura costituisce garanzia insostituibile per la difesa dei fondamenta-li valori di libertà civile e di progresso tutelati dalla Costituzione e che, quindi, ogni paternalistica interferenza di altri Poteri non può che deprimere e svilire tali valori;
chiedono ... che si rinunci al metodo di risolvere i contrasti tra le varie componenti politiche determinando, tra i Poteri dello Stato, il pericolo di assurdi conflitti, dei quali l'unica beneficiaria è certamente la criminalità organizza-ta;
esigono per la decisa eliminazione del fenomeno mafioso ed anche nell'interesse della libertà e dignità di ogni cit-tadino e di coloro, in particolare, che sono preposti alla repressione della criminalità, che si omettano giudizi su-perficiali, perché privi di ogni seria documentazione, e che, insieme, cessi l'abitudine, da pane di singoli compo-nenti di Organi responsabili, di formulare opinioni personali che sembrano impegnare quelle collegiali;
riaffermano con la massima chiarezza che non intendono difendere alcun privilegio di casta e che sono, quindi, pronti ad accettare, ove siano seri e fondati, tutti i possibili rilievi su effettivi abusi o disfunzioni che gli stessi Ma-gistrati sapranno valutare con giusta severità".

(Testo tratto dalla pubblicazione del Csm "Nel loro segno", in memoria dei magistrati uccisi dal terrorismo e dal-le mafie, 2011)